Nel caso del crudele omicidio di Mahmoud Abdallà, decapitato e mutilato da due connazionali, c’è una possibile svolta. Il parrucchiere non lavorava in nero nella barberia. Il movente del delitto è un altro
Nella barberia di Aly Abdelghani Ali il giovane parrucchiere 19enne, Mahmoud Abdallà, lavorava con un regolare contratto di lavoro, anche se, come riporta la Repubblica, nel verbale stilato dal Nom delle Fiamme gialle, in un controllo a sorpresa dei finanzieri, finalizzato a contrastare il lavoro in nero avvenuto lo scorso 19 giugno nell’esercizio commerciale di via Merano, il parrucchiere egiziano dichiarò di lavorare per tante ore, di essere pagato poco e di non ricevere lo stipendio da oltre un mese.
La dichiarazione scritta nero su bianco dalla Guardia di Finanza è agli atti dell’inchiesta sulla morte del 19enne egiziano, decapitato e mutilato di mani lo scorso 23 luglio dai due connazionali Abdelwahab Ahmed Gamal Kamel, 27 anni, detto Tito, e da Mohamed Ali Abdelghani Ali, 26 anni, detto Bob. Quindi, il delitto atroce non sarebbe maturato nell’ambito del lavoro nero, né delle presunte denunce da parte dell’egiziano.
Mahmoud Abdallà: il vero movente dell’omicidio
Il delitto del giovane egiziano, quindi, non sarebbe nato per questioni legate allo sfruttamento del lavoro. Secondo una fonte investigativa: “Il movente è da cercare in altre attività della barberia”.
Si pensa che il 19enne, molto probabilmente, aveva visto qualcosa che non doveva. Così, nel momento in cui aveva deciso di cambiare lavoro, i due connazionali che gestivano la barberia, Tito e Bob, avrebbero deciso di ucciderlo per paura che il ragazzo avrebbe parlato.
Sia Tito che Bob sono attualmente in carcere accusati di omicidio ed occultamento di cadavere. I due sono rispettivamente cugino e fratello di Aly, che una settimana dopo i controlli della Gdf è fuggito in Egitto e da dove tramite i suoi legali in Italia, ha chiesto il dissequestro delle due attività commerciali riferendo agli avvocati che al momento non ha intenzione di rientrare in Italia. Ma a Genova, ad attenderlo, ci sono i carabinieri del Nucleo Investigativo e il pm Daniela Pischetola che vorrebbero sottoporlo a interrogazione seppur la Procura, ad oggi, non ha confermato nessuna convocazione in merito.
Ipotesi giro di racket dell’immigrazione clandestina
Le due attività di Genova sono state sequestrate dai carabinieri pochi giorni dopo l’omicidio. Durante l’ispezione delle Fiamme gialle del 19 giugno scorso, nella barberia di via Merano dove lavorava anche la vittima, erano presenti Aly, Tito ed altri due giovani parrucchieri. Uno di questi due non in regola con il contratto di lavoro e l’altro addirittura clandestino in Italia.
Tutti erano domiciliati nella casa-dormitorio sempre a Sestri Ponente, attualmente sotto sequestro anche questa. Ed è proprio in questa casa che quel pomeriggio del 23 luglio, Mahmoud è stato prima ucciso con tre coltellate, poi chiuso in una grossa valigia e trasportato in taxi nella barberia di Chiavari. Solo nella notte del 24 il corpo del 19enne è stato decapitato, mutilato e gettato in mare. La testa non è stata più trovata.
I tre egiziani: Aly, Tito e Bob gestivano anche il dormitorio di via Vado, dove alloggiavano una decina di nordafricani, giunti in Italia da minorenni e dove i tre avviavano poi al lavoro di parrucchieri. Ora gli inquirenti si domandano se dietro a tutto questo non ci fosse anche un racket legato all’immigrazione clandestina. Proprio in questa direzione sono stati fatti accertamenti bancari, per cercare di scoprire eventuali movimenti di denaro con l’estero.