Un anno dopo lo scoppio della guerra si è costretti a fare i conti anche con le fake news: come hanno influenzato il conflitto.
Un anno fa scoppiava la guerra in Ucraina ad opera dei russi che hanno attaccato Zelensky e la comunità con il pretesto di difendersi. Contro presunte forme di totalitarismo presenti nel Donbass. L’offensiva nei confronti di Kiev, però, era programmata da tempo. Il piano di Putin era ben preciso. Poi è andato modificandosi con il passare dei mesi: in primis il leader russo non pensava che il conflitto potesse durare così tanto.
Sperava in una “guerra lampo” per riuscire a penetrare laddove in passato non gli era stato possibile arrivare: una rivalsa perenne che ha trovato, però, la resistenza di un popolo che ha dato tutto per non perire sotto i colpi bellici dell’invasore. Gerarchie stravolte, priorità modificate e anche necessità taciute. 365 giorni dopo, però, occorre fare i conti anche con un altro aspetto: quello delle fake news.
Guerra in Ucraina, il ruolo determinante della disinformazione
La propaganda bellica viaggia, anche, sulla disinformazione. Due anni di pandemia, con qualche rigurgito negazionista, dall’attendibilità dei vaccini alla messa in dubbio della scienza, hanno favorito l’agevolarsi della paura e dell’approssimazione: terreno fertile per Putin (e non solo) allo scopo di promuovere un attacco che in altri tempi non avrebbe sortito lo stesso effetto.
Innanzitutto si è partiti con il meccanismo della negazione: nessuno credeva, o meglio così faceva comodo pensare, che la Russia potesse attaccare l’Ucraina. Anche in tal caso il processo di rimozione sembra aver funzionato a cementare la logica del pregiudizio: editoriali e approfondimenti contro Mario Draghi (allora Premier) quando parlava di attenzione all’offensiva possibile.
Poi si è passati a fare i conti con un altro termine: “Escalation”. Prima di arrivare a interiorizzare questa eventualità, ovvero che le esercitazioni filorusse nei territori di Donetsk e Lugansk fossero mirate a una strategia che prendesse spunto dalla guerriglia, ci sono volute settimane in cui – soprattutto in Italia – viaggiavano fake news sui canali Telegram in cui si diceva chiaramente che l’ipotesi del conflitto era soltanto una forma di allarmismo ingiustificato contro Putin non visto di buon occhio da quelli che erano e sono considerati progressisti.
Dalle esercitazioni al numero di vittime: tutte le approssimazioni dei media
Invece dietro c’era molto di più. Il senno del poi, però, non aiuta ma sottolinea come la visione d’insieme avrebbe potuto aiutare. Confusione agevolata dal canale social “War on Fakes” che non solo venne creato ad arte su Telegram, ma è stato anche usato dal Ministero russo come finestra di raffronto nelle prime settimane di invasione. Tutto troppo secondo chi avrebbe dovuto raccontare il cambiamento di una comunità.
L’Europa aspetta risposte, ma è troppo tardi; anche rispetto ai numeri di cadaveri che cominciano a fioccare. A conflitto in corso, un altro aspetto su cui si è lucrato e si continua a lucrare sono i morti civili: ovvero quelle vittime che non c’entrano nulla con la situazione in essere. Gli eserciti si fronteggiano, ma a farne le spese sono spesso ignari residenti: palazzi che crollano, ponti che cedono, macchine che prendono fuoco.
Il pressappochismo per dividere
Intanto prosegue la “controinformazione” su blog e tv russe che vengono riprese anche da riferimenti italiani, più o meno autorevoli. La guerra passa ad essere raccontata nei talk show: confronto di dati senza fonte certa e continui aggiornamenti senza alcun riscontro oggettivo.
Su questo si fonda l’intenzione di creare tensione e divisione: per questo in Russia, spesso, venivano fatti tacere media e viene ancora oggi resa la vita difficile a determinati tipi di giornalismo. Un “virus” che ha attecchito anche in Italia, solo che la “rimozione degli eventi” ha prestato il fianco – inevitabilmente – alla consapevolezza: non è più il momento di girare la testa dall’altra parte.