Matteo Messina Denaro prosegue la sua detenzione nel carcere duro dell’Aquila, ma nel frattempo emergono altri dettagli sulla latitanza.
Una vita normale, al punto di potersi permettere anche di insultare liberamente un simbolo della Repubblica Italiana. Matteo Messina Denaro, arrestato dopo 30 anni di latitanza, si trova nel carcere duro dell’Aquila controllato senza sosta e in procinto di fare le cure che dovrebbero alleviare il suo calvario riguardante il cancro al colon di cui soffre da tempo.
Tempo che avrebbe passato avanti e indietro da una clinica all’altra: torna in Sicilia, dopo aver girato in lungo e in largo, per paura di non avere cure all’altezza. Si fida poco e agisce con circospetto. Non abbastanza, evidentemente, quando sceglie il nome (uno dei tanti) di Andrea Bonafede. Quello che lo ha tradito definitivamente dopo una vita in fuga.
La malattia, in questo, è assolutamente democratica: non guarda la carta d’identità e Messina Denaro rimane incastrato perchè cerca di curarsi. Persino chi si crede invincibile deve arrendersi all’evidenza: la stessa che gli fa avere strumenti di prima qualità e assistenza in quello che dovrebbe essere – e nella realtà è – un bunker. Al punto che, per ragioni mediche, non si presenta neppure alle prime fasi del processo. Interrogatori che gli faranno per sperare di farlo parlare.
Davanti alle autorità Messina Denaro non parla, scherza addirittura con i piantoni: “Fino a poco tempo fa ero incensurato, poi non so cos’è successo”, ma si lascia andare con gli altri. La comunità di Campobello di Mazzara che, almeno nell’ultimo anno, lo aveva sotto gli occhi senza accorgersi di chi fosse: “Si presentava come Francesco”, dice qualcuno. “Una persona tranquilla”, sottolinea un commesso.
Tutti cadono dalle nuvole, persino i pazienti oncologici della Clinica Maddalena di Palermo. Nel novero, secondo le ricostruzioni, degli istituti che il boss frequentava per curarsi dal male che lo attanagliava quasi quotidianamente. Un’Odissea che continua, ma ora è seguito diversamente. Prima, da latitante, andava e veniva dai reparti in cui conosceva persone di vario genere.
Inizialmente imprenditore, poi pensionato, cambiava passato e presente a seconda di chi aveva davanti: una donna, che dice di averlo conosciuto in clinica, consegna alle Forze dell’Ordine delle chat Whatsapp il cui contenuto viene pubblicato su La Repubblica e Corriere della Sera e anticipato da Massimo Giletti nel corso di “Non è l’Arena”. “Sono qui bloccato nel traffico, mi sono rotto i c*****ni. Tutto per le commemorazioni di sta min**a”.
Il riferimento è alle commemorazioni del Giudice Giovanni Falcone che anche Messina Denaro ha contribuito a fare ammazzare. Con lui la moglie, Francesca Morvillo, e gli uomini della scorta. Era il 23 maggio scorso, quando Messina Denaro imprecava come se niente fosse. Ma quelle parole fanno male ancora oggi, come l’ennesima beffa, quando sembrerebbe essere tutto finito.
Risolto, invece, non è ancora nulla: Maria Falcone vuole ulteriore chiarezza, la sorella del Giudice scomparso sottolinea quanto questo materiale indichi la frustrazione di un uomo allo sbando. I pezzi del puzzle, però, non sono ancora ricomposti. La guardia deve restare alta anche e soprattutto dopo frasi così.
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