Il 25 novembre, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne i numeri parlano chiaro: 104 femminicidi in Italia dall’inizio dell’anno e le denunce non mancano. Nel nostro Paese, però, i centri antiviolenza non sono abbastanza: 350 da nord a sud e le case rifugio sono ancora di meno. Uno dei primi centri è a Milano. La Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano, Cadmi, primo Centro Antiviolenza nato in Italia. Da allora rappresenta il punto di riferimento per le donne che subiscono violenza, sia fisica, psicologica, sessuale, economica o stalking. Manuela Ulivi presidentessa della Cadmi, racconta il senso di questa giornata al quotidiano online Free.it
Cadmi è un luogo di ascolto e accoglienza dove è possibile raccontare la propria storia. Si può parlare a telefono con un’operatrice competente disponibile ad ascoltare. “Uscire dalla violenza si può, con la pratica della relazione fra donne. Le donne qui trovano ascolto e fiducia, ma anche luoghi sicuri per costruire nuovi progetti e tornare a vivere libere”, si legge sul sito della Casa. Ma qual è la situazione in Italia? C’è davvero attenzione alla violenza?
Qual è la situazione, dal suo osservatorio?
“L’osservatorio non è cambia molto da un anno all’altro, il trend è più o meno uguale. Abbiamo già detto che di recente ci sono più giovani rispetto a una volta che denunciano e cercano di uscire dalla violenza. Ci chiedono aiuto donne tra i 20 e i 30 anni. Le novità che ci sono cambiano in relazione ai progetti che la Casa delle donne di Milano mette a disposizione. Negli ultimi anni abbiamo ampliato la nostra attenzione allo sportello lavoro e quindi alla ripresa di un’attività lavorativa o al miglioramento di quella che una aveva. Abbiamo implementato la capacità delle donne di essere autonome per poter fare delle scelte e allontanarsi dalla violenza più facilmente”.
Dal suo punto di vista nell’ultimi anno secondo lei la situazione è peggiorata o migliorata?
“La situazione è un trend che si ripete più o meno uguale ma devo dire che io, come le altre mie college della rete nazionale antiviolenza siamo veramente stanche di ripetere sempre le stesse cose. E di non trovare corrispondenze. I giornalisti ci chiamano solo il 25 novembre, i tribunali non leggono la violenza e la traducono in semplice conflitto se ci sono di mezzo i figli. Rispetto al penale le cose vanno un po’ meglio perché alcune regole indicate dal codice rosso hanno fatto breccia. Noi saremmo stufe di essere considerate solo un servizio per le donne, che cambiano la loro vita. Ma il problema è che nessuno è capace di leggere questo dato e si continuano a dare solo le notizie dei femminicidi. Ci si ricorda dei centri antiviolenza solo in quei casi o oggi”.
Cosa servirebbe invece?
“Intanto, servirebbe che nelle scuole ci fosse attenzione costante ai programmi per fare percorsi studiati per gli alunni. A cominciare dalle elementari e le medie, perché al liceo li abbiamo ormai quasi persi. Nel senso che sono già incanalati rispetto alle questioni di educazione, cultura, rapporto e relazioni tra i sessi. Bisognerebbe che anche i professori facessero dei bei corsi di formazione, perché sono i primi a volte a replicare dinamiche errate. Spesso non c’è attenzione verso certe situazioni e può capitare di fare dei danni.
“Se pensiamo poi a quello che ha detto ieri il ministro Valditara mi viene da piangere, che bisogna umiliare i giovani, per renderli più forti. L’umiliazione genera situazioni di ulteriore violenza. Perché chi è stato umiliato non potrà che riprodurre delle condizioni di violenza. Umiliare è proprio il verbo più antitetico rispetto alla cultura della non violenza. Se un ministro dice questo, facciamo acqua da tutte le parti. E’ come se noi svuotassimo un vaso che qualcun altro riempie dall’altro. Non ci siamo proprio”.
Pensa che non ci siano passi avanti verso una cultura della non violenza?
“E’ inutile venirci a dire quanto siamo bravi per quello che facciamo, venirci a chiedere quante donne abbiamo salvato quest’anno. Noi facciamo un lavoro anche molto competente, molto approfondito. Dall’altro lato, però, si lavora a sgarrupare. Eh no, così non può funzionare. Qui c’è tutta una società attorno a noi che non sta funzionando. E noi siamo arrabbiate e davvero stufe. E’ ora di dire basta. Non solo alla violenza, ma alla cultura che tutto sommato finisce per alimentarla”.
Da che parte di deve cominciare, se proprio dall’alto arriva il cattivo esempio?
“Si può iniziare a non dire stupidaggini, tanto per cominciare. Se un ministro dice una roba del genere, possiamo anche chiudere le porte e smetterle. E poi noi non possiamo pensare alla violenza come a un intervento sempre e solo giustizialista. Si va bene, per carità, se uno ha commesso un reato è giustissimo che si paghi, ma non è tutto da concentrarsi lì il problema. La questione è di vederla la violenza. Cosa possiamo fare? Che li facciano tutti i corsi di formazione: studenti, insegnanti, forze dell’ordine, ministri. A questo punto ci mettiamo anche loro. Ci sono moltissimi livelli della nostra società che educano i giovani che non sanno cos’è la violenza e che non sanno come si origina e come si riproduce. Se non facciamo questo, non andremo da nessuna parte”.
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