Hikikomori, la pratica del ritiro dalla vita sociale è sempre più diffusa tra gli adolescenti: i dati sul fenomeno in Italia. Come si riconoscono e come aiutarli.
Vivono immersi nel presente, occupati a soddisfare unicamente i propri bisogni primari. Testa china sul pc, ‘segregati’ tra le mura delle loro camerette. Degli Hikikomori si è scritto e discusso molto negli ultimi anni.
Il termine arriva dal Giappone, letteralmente “stare in disparte”, viene utilizzato anche per indicare il ritiro volontario dalla vita sociale per lunghi periodi, a volte anche anni. Una realtà drammatica che riguarda giovani tra i 14 e i 30 anni, maschi nel 70-90% dei casi. Tagliano fuori la realtà che li circonda, evitano ogni tipo di contatto diretto con il mondo esterno, nei casi più estremi anche con gli stessi familiari. In Italia il fenomeno sta crescendo vertiginosamente, nonostante ad oggi sia colpevolmente sottostimato.
Nonostante il disagio si palesi principalmente durante l’adolescenza, la condizione di hikikomori tende a cronicizzarsi, rischiando di durare anche per tutta la vita. In Italia, i lockdown dovuti all’emergenza sanitaria Covid-19 hanno drammaticamente acuito il problema. Così, l’attenzione nei confronti del fenomeno sta via via aumentando. Nel nostro Paese non ci sono ancora dati ufficiali, ma si stima ci siano circa 100mila casi.
“Solitamente, i ragazzi Hikikomori sono molto restii a farsi aiutare“, spiega lo psicologo Marco Crepaldi, Presidente dal 2017 dell’Associazione Hikikomori Italia. “Le richieste, infatti, provengono princioalmente dai genitori ai quali consigliamo di creare un legame positivo, un’alleanza genitore-figlio, fondamentale perché il ragazzo accetti di farsi aiutare. Partiamo dalla famiglia e cerchiamo di avvicinare il ragazzo. Se non collabora e non vuole essere aiutato, si cerca di intervenire e lavorare sul genitore sperando di ottenere effetto indiretto sul ragazzo”.
La prima cosa da fare, prosegue Crepaldi, è “dialogare con il ragazzo, e rapportarsi a lui con un atteggiamento non giudicante. Al centro deve essere messo il suo benessere, senza alimentare quelle pressioni e quelle aspettative sociali, causa dell’isolamento”. Per questo motivo, “se il ragazzo rifiuta la scuola, è bene non insistere ma magari trovare un piano didattico personalizzato che preveda la frequenza a casa, da remoto”. Sono assolutamente sconsigliati “atteggiamenti coercitivi come staccare internet, oppure usare la forza per impedire al figlio di chiudersi a chiave in camera. Oltre al supporto psicologico, è fondamentale un aiuto psichiatrico, anche farmacologico, qualora servisse, ad esempio in caso di una depressione grave“, conclude.
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