Estorsioni, traffico di droga in Italia e a Ibizia. Ruota attorno a questo l’indagine della Dda e dei Ros su un gruppo ‘ndranghetista legato alla famiglia Mancuso di Limbadi. Sono 4 gli arresti e 27 gli indagati.
Avevano una rete che copriva tutta Italia e si estendeva anche all’estero. Ad Ibiza, poi, i Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia) erano di casa. E ‘sorvegliavano’ perfino i magistrati milanesi da un bar di via Manara, praticamente di fronte ad uno degli ingressi del Tribunale di Milano.
E’ questo il quadro che emerge da un’operazione coordinata dalla pm della Dda di Milano Alessandra Cerreti, denominata ‘Medoro’, e condotta dai carabinieri del Ros che riguarda un gruppo ‘ndranghetista che faceva capo alla famiglia Mancuso di Limbardi (Vibo Valentia). In tutto sono 4 gli arrestati e 27 le persone indagate. Decine le perquisizioni soprattutto in Lombardia ma anche nel resto d’Italia.
Ai vertici dell’organizzazione c’era Luigi Aquilano, uno dei quattro arrestati. Il genero del boss 84enne Antonio Mancuso, era “promotore e organizzatore” del gruppo finito al centro delle indagini. Aquilano “avendo sposato Rosaria Mancuso, figlia del capobastone Antonio Mancuso”, come si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva “compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni da compiere e delle strategie da adottare”.
Non solo. Aquilano “pianificava, organizzava e gestiva personalmente il traffico di sostanza stupefacente, coordinando tutte le fasi”. A lui si deve l’espansione dei Mancuso “fuori dei confini nazionali ed, in particolare, sull’isola di Ibiza, facendo leva sulla forza di intimidazione” capace di esercitare il clan e “sulle conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà” degli imprenditori italiani che operano alle Baleari. A loro il clan proponeva un ‘servizio’ di “recupero crediti”.
Il gruppo di ‘ndranghetisti si era anche organizzato per ‘monitorare’ i magistrati milanesi. Nel 2020, dopo la prima ondata di Pandemia, aveva comprato un bar praticamente di fronte all’uscita del Palazzo di Giustizia di via Manara. Nel locale lavorava la figlia bel boss Antonio Mancuso, Rosaria (che non è indagata). E prendeva informazioni sulla clientela del locale, “composta da magistrati avvocati e membri delle forze di polizia e e personale impiegato negli uffici giudiziari”. In particolare, la donna “approfittando delle generalità riportate sui ticket” dei buoni pasto aveva “consultato fonti aperte per informarsi sulla storia e sulla carriera professionale dei magistrati che sono habitué del loro bar”. Tanti quelli individuati, dal giudice del processo sulla “nota farmacia Caiazzo di Milano alla famiglia mafiosa degli Strangio”. Ad una magistrata “bionda che ha fatto processi importanti”, fino al pm che “faceva parte del processo Why Not” contro la ndrangheta. “Siamo proprio circondati!”, è il commento della donna.
Dall’attività di indagine è emersa la figura di una ‘avvocatessa’ abilitata in Spagna che riteneva”di vantare un credito di oltre 40 mila euro” nei confronti di un piccolo imprenditore della Lombardia. Così era passata alle vie di fatto. E aveva contattato tre persone vicine a Cosa Nostra, alla ‘Ndrangheta e alla Sacra Corona Unita per minacciarlo. Tra questi anche un individuo vicino alla nota famiglia di mafia Fontana.
L’inchiesta sul “gruppo mafioso” radicato in Lombardia e in particolare nella provincia di Milano, come spiega il procuratore, è partita nella primavera 2018. Alcuni degli indagati sono legati “da vincoli di parentela” con esponenti del clan Mancuso di Limbadi. E’ venuto a galla un maxi traffico di droga con movimentazioni da quasi 100 kg, tra hashish, marijuana e cocaina e una “importazione di quasi 2 tonnellate di hashish” per un volume di affari di alcune centinaia di migliaia di euro.
Le tre persone a cui si sarebbe rivolta l’avvocatessa avrebbero posto in essere “pesanti minacce, intimidazioni ed appostamenti nei confronti” della vittima, un piccolo imprenditore, per obbligarlo a restituire quei 40mila euro ‘maggiorati’ del compenso per “il loro intervento”. Sarebbe stato l’esponente del clan di Cosa Nostra dei Fontana a sollecitare l’intervento di “un ‘Mancuso'” e di un altro presunto mafioso vicino alla Sacra Corona. Quest’ultimo, detenuto, sarebbe comunque riuscito a mandare tramite WhatsApp “messaggi fortemente intimidatori” con foto di “micidiali armi da guerra”. Con un’operazione della Dda è stata tutelata la “incolumità” dell’imprenditore in questo “allarmante scenario criminale”. Tre degli indagati sono in carcere e uno ha l’obbligo di firma.
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