Brutte notizie per Julain Assange. Oggi è arrivata la notizia che potrebbe condizionare definitivamente la sua lotta contro gli Stati Uniti.
Il destino del fondatore di WikiLeaks appare segnato, nonostante le proteste globali di voci assai variegate.
Per gli Stati Uniti è un nemico giurato. Julian Assange, l’editore e giornalista australiano che negli anni passati ha svelato informazioni segrete, contribuendo a rendere pubblici montagne di documenti riservati imbarazzanti per molti governi, contenenti fra l’altro evidenze di crimini di guerra Usa in Iraq e Afghanistan, adesso potrebbe essere a un passo dal capitolare definitivamente.
Gli Usa gli hanno imputato non solo il presunto reato di complicità nell’hackeraggio di file del Pentagono, ma persino un’accusa di violazione della legge sullo spionaggio (l’Espionage Act del 1917): mai vista per punire la diffusione di documenti segreti sui media.
Il governo americano ha chiesto la sua estradizione in America dove rischia sulla carta una condanna monstre fino a 175 anni di galera. E oggi è arrivata una notizia che l’entourage di Assage e i suoi sostenitori speravano non arrivasse.
Il governo di Boris Johnson ha, infatti, dato il via libera politico alla consegna del fondatore di WikiLeaks al grande alleato americano, apponendo per mano della ministra dell’Interno Priti Patel – falco della destra Tory già impegnata a cercare di spedire in Ruanda carichi di migranti clandestini in cerca di asilo – la firma sul decreto d’estradizione oltre oceano dell’ex primula rossa australiana.
Un atto tecnico largamente scontato, quello di Patel. E ancora appellabile, come i difensori di Assange, 51 anni a luglio, si apprestano a fare entro i 14 giorni prescritti. Ma che sarà dura rovesciare, malgrado lo sdegno dei sostenitori sparsi per il mondo, tenuto conto che a riaprire il caso su basi puramente procedurali dovrebbe essere quella medesima Alta Corte britannica che – dopo un iniziale stop in primo grado – ha già dato nel merito giuridico la cruciale autorizzazione all’estradizione.
“Consentire che Julian Assange venga estradato negli Stati Uniti significherebbe esporre lui a un grande pericolo e mandare un messaggio agghiacciante ai giornalisti di tutto il mondo“, ha tuonato fra i primi Agnes Callamard, segretaria generale di Amnesty.
In prima fila, nella battaglia da ultima spiaggia per Assange, ci sono però soprattutto WikiLeaks e naturalmente Stella Morris: la legale sudafricana che ad Assange ha dato due figli durante i 7 anni del suo asilo nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, per poi sposarlo a marzo dietro le mura del cupo carcere di massima sicurezza di Belmarsh. Oggi, ha denunciato Morris, “è un giorno nero sia per la libertà d’informazione nel mondo sia per la democrazia britannica. Priti Patel ha scelto di farsi complice dell’estradizione di Julian verso un Paese che ha complottato per assassinarlo e che vuole trasformare il giornalismo investigativo in un crimine. Mio marito non ha fatto nulla di sbagliato, è un giornalista ed editore colpevole solo di aver compiuto il suo dovere“, svelando informazioni d’interesse pubblico anche per il tramite di alcune delle testate più prestigiose al mondo.
“Non facciamoci confondere, questo è sempre stato un caso di persecuzione politica, non una vicenda legale“, ha quindi rincarato, aggrappandosi alla speranza dell’ennesimo appello e di un rilancio delle proteste di piazza per dirsi convinta che la partita “non sia ancora finita” e vi possa essere una strada aperta “verso la libertà di Julian“, per quanto “lunga e tortuosa“.
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