L’acciaieria simbolo della difesa di Mariupol e dell’Ucraina non c’è più. Non è più nemmeno un bunker inespugnato. Azovstal è definitivamente caduta. Dopo 86 giorni di resistenza, secondo la Difesa di Mosca l’impianto è “totalmente sotto il controllo delle forze armate russe”.
Un totale di 2.439 combattenti ucraini si è arreso consegnandosi al nemico, come ordinato del resto dallo Stato maggiore di Kiev. Tra questi anche il comandate del reggimento Azov, Denis Prokopenko.
Dopo quasi tre mesi di resistenza che ha segnato le sorti e l’immaginario della guerra la battaglia di Mariupol sembrerebbe definitivamente conclusa. In meno di 100 ore dall’inizio delle evacuazioni tutti i militari asserragliati nello stabilimento Azovstal hanno lasciato l’impianto. Lo stesso ministro della Difesa russo, Serghei Shoigu. ha comunicato al presidente Vladimir Putin “la fine dell’operazione e la completa liberazione” della fonderia.
Il boccone amarissimo della sconfitta alla fine hanno dovuto ingoiarlo anche gli irriducibili comandanti del reggimento Azov e delle altre truppe asserragliate nei cunicoli, che hanno cercato di restare fino all’ultimo momento possibile.
Visto che era “impossibile sbloccare” lo stallo “con mezzi militari”, ha spiegato il presidente Volodymyr Zelensky, la scelta della resa.
“Il comando militare superiore ha dato l’ordine di salvare la vita dei soldati della nostra guarnigione e di smettere di difendere la città di Mariupol“, ha detto nel suo ultimo video il comandante di Azov, Denis Prokopenko, che lunedì aveva dato il via libera alle uscite dei suoi commilitoni dopo il primo diktat sulla resa giunto da Kiev. Infine, anche lui e gli altri capi che per settimane sono stati il volto della resistenza – in testa il suo vice Sviatoslav ‘Kalina’ Palamar e il comandante della 36/ma brigata dei marines, il maggiore Serhiy Volyna – hanno dovuto cedere.
Mosca in serata ha diffuso il video della loro resa, sostenendo che Prokopenko è stato portato via “con un veicolo blindato speciale” verso i territori controllati dalla Russia. Adesso, per Kiev sarà l’ora delle trattative per tentare uno scambio di prigionieri con Mosca, da condurre anche con la mediazione internazionale, ha spiegato Zelensky, citando il contributo di Turchia, Svizzera, Israele e Francia.
La fine dell’epopea di Azovstal giunge mentre l’offensiva vive una nuova drammatica accelerazione nell’est dell’Ucraina. “E’ l’inferno, e non è un’esagerazione. Il Donbass è completamente distrutto“. E “tutto questo non ha e non può avere nessuna spiegazione militare per la Russia“, ha denunciato Zelensky. I bombardamenti hanno preso di mira 54 insediamenti nelle regioni di Donetsk e Lugansk, uccidendo almeno 20 civili, in “un tentativo deliberato e criminale di uccidere quanti più ucraini possibile“, ha accusato il presidente.
A Severodonetsk, nel Lugansk, il governatore Serhiy Gaidai ha denunciato che i russi “hanno aperto il fuoco su una scuola dove si nascondevano centinaia di persone e almeno 3 residenti sono stati uccisi“. Nell’istituto si rifugiavano più di 200 persone, tra cui molti bambini.
Il prezzo del tentativo di conquista, ha denunciato ancora Kiev, è la devastazione di centri come Rubizhne, che è stata “completamente distrutta, non ci sono edifici superstiti, molte case non possono essere restaurate. Nei cortili ci sono cimiteri”. Una città che condivide ormai il “destino di Mariupol“, dove i russi hanno intanto completato la rimozione delle macerie del Teatro d’arte drammatica bombardato a marzo, portandosi via secondo gli ucraini centinaia di corpi e gettandoli nella fossa comune di Mangush. “Ora – ha denunciato il consigliere del sindaco Petro Andryushchenko – non sapremo mai quanti civili di Mariupol siano stati effettivamente uccisi“.
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