Dalle parole di Josep Borrell, alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri si evince che in Ucraina, dopo 17 giorni dall’inizio del conflitto, si è arrivati a 2,6 milioni di persone in fuga. Si potrebbero superare anche i 5 milioni. Ad intervenire concretamente ci sono molte associazioni umanitarie, tra cui l’italiana Intersos. In ESCLUSIVA al quotidiano online Free.it, Giovanni Visone, direttore della comunicazione e della raccolta fondi dell’organizzazione.
I numeri riferiti alle persone in fuga dai bombardamenti russi in Ucraina sono veramente preoccupanti. A sole tre settimane dal conflitto, solo la Polonia sta ospitando oltre 2 milioni di rifugiati, In Italia ce ne sono già intorno ai 50 mila e la situazione in divenire andrà a peggiorare.
Anzitutto, Come sta signor Visone?
Sono rientrato da 10 giorni e mi sento bene. Non sembra una situazione di intervento complessa, dato che è un paese europeo e con realtà simili alle nostre. La stranezza è questa e le condizioni di vita sono simili a quelle nostrane. Comunque, tutti questi giorni sono segnati da tanto lavoro, perché siamo di fronte a una crisi di grandi proporzioni. A oggi, 3 milioni di persone hanno lasciato l’Ucraina e noi abbiamo fatto il possibile per essere presenti interamente, non solo sui confini ma anche nel paese stesso, dove i bisogni umanitari sono tanti e altrettanto è il lavoro per rispondere alle necessità. La fatica arriva anche dal raccontare ai media quanto accade. Questa crisi sta attirando l’attenzione di tutti e si nota anche tanta solidarietà.
Quali sono le sensazioni provate da lei e dal suo staff?
Sicuramente ci ha colpito la grande presenza di bambini, parlo dell’intervento fra i rifugiati minori con meno di due anni, che sono stati spesso uno su tre dei nostri pazienti. Anche a livello personale suscita un’emozione particolare di fronte a questi drammi e ci ha colpito molto che molti bambini non parlano più perché scioccati dal trauma vissuto, come lo hanno subito anche gli infanti che disegnavano sui muri quello che hanno visto: bombe e carri armati.
Che immagini le sono rimaste impresse?
L’immagine di una mamma che viaggiava da sola e aveva una diagnosi di depressione e della figlia, di 8 o 9 anni, che si prendeva cura di questa signora: un’inversione dei ruoli.
Anche di una donna che soffriva di ipertensione che, dopo essere stata accudita dai medici ed essere tornata in forze, si è alzata in piedi e ha abbracciato la nostra dottoressa. Molto emozionante è stata la vista di tanti volontari, anche polacchi. Negli ultimi anni non hanno brillato per accoglienza, ma ora si sono rimboccati le maniche e hanno portato un grande sostegno e un senso di calore.
Mi racconti il viaggio e l’ansia prima di partire?
Non c’era ansia prima di partire per Cracovia, più che altro la soddisfazione di andare lì ad aiutare. In Iraq, durante la battaglia di Mossul, mi ha colpito che nella via del ritorno dalla prima linea di Arbil mi addormentavo, era il mio modo per ricaricare e pulire la mente, arrivare, rimettermi a lavoro e ri-filtrare quello che avevo visto. Hai bisogno di questi momenti, servono spazi per respirare in quelle situazioni di guerra. Una volta mi sono incontrato con un amico che fa un lavoro impegnativo, mi ha chiesto: lavori tanto? Ma mica mi hanno costretto, ho risposto.
Gli interventi umanitari in Ucraina da parte di Intersos
In quanto tempo siete riusciti ad arrivare ai confini con l’Ucraina?
Nel giro di due giorni eravamo in Polonia, dai primissimi giorni di marzo in Moldavia e dall’11 marzo a Leopoli, dove sono iniziate le attività di sostegno verso le persone bisognose.
Quanti operatori umanitari ha Intersos sui territori al confine?
Stiamo strutturando gli interventi e un team di emergenza. Pian piano crescerà la risposta. Al momento abbiamo una decina di persone in ogni paese. Quello che stiamo facendo in questo momento in Polonia è un punto medico sul confine. Vi sono nostre cliniche mobili in Moldavia, nella capitale e in altre zone. In Ucraina vi è un allestimento di shelder per l’accoglienza ai rifugiati, con uso diurno e notturno. Edifici vuoti adattabili a spazio per vivere e rifugi in ospedale pediatrico dopo gli allarmi per i bombardamenti.
Vi è un sistema di cliniche mobili che arrivano agli shelder e una fornitura di materiali e farmaci per ospedali sul territorio più in difficoltà. Siamo situati nell’Ucraina occidentale, dove ci sono gli sfollati. Vi è da effettuare un’attenta valutazione della sicurezza e un’attenta procedura di riduzione del rischio.
Inizialmente non si poteva entrare in Ucraina?
Si poteva entrare in Ucraina ma quando arrivi in un paese devi coordinarti con le autorità. Adesso è stato rapido. In Moldavia vi è un accordo col governo e in Polonia con le autorità locali; anche in Ucraina si è stabilita una partnership con organizzazioni locali, per creare reti con le autorità e le realtà locali.
Vi è il bisogno di avere contatti sul territorio e capire dove c’è più necessità del nostro aiuto e quali ospedali hanno più bisogno, Insomma, un assessment, un sopralluogo d’intervento utile.
Siete famosi per avere delle unità mobili che girano nelle zone in emergenza. Ci sono in questi territori, o arriveranno?
Il lavoro con le unità mobili è un modello consolidato per noi e ci consente di raggiungere quelle aree con più elevato numero di bisogni e bassa presenza umanitaria. In Afghanistan, Iraq, Yemen e altre zone di guerra bisogna arrivare dove c’è meno presenza dei servizi clinici mobili, che devono fare trasporto pazienti gravi in ospedali vicini. La rete locale è fondamentale.
Sembra più cruenta come guerra in confronto alle altre, sbaglio?
Senza fare una classifica delle guerre, bisogna ricordare che ci sono drammatiche crisi umanitarie, che non vanno dimenticate. In Yemen e in Afghanistan oltre 20 milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari e i tassi di malnutrizione, anche infantile, sono tali da provocare la strage di bambini. La verità è che c’è un conflitto più vicino ed è combattuto da grandi eserciti, ma quello che succede in altri paesi, che in termini di violenza stanno vivendo in questi anni, mi porta a dire che non si fanno classifiche, ma a realizzare che sono molto cruente anche quelle.
Come procede la raccolta fondi?
Le persone sono molto sensibili e vogliose di fare qualcosa che si indirizzi verso iniziative concrete e serie sul campo. Un aiuto umanitario strutturato al momento, per rispondere a crisi così gravi. Tanta disponibilità e va indirizzata, in modi che si trasformino in aiuto concreto per le popolazioni. C’è bisogno di tanto e c’è ancora tanto spazio per la generosità delle persone.
Secondo lei l’allarme maggiore qual è?
La preoccupazione maggiore è di garantire accesso alle cure mediche salvavita e le strutture mediche sono sempre più sotto pressione, quindi salvare le vite umane in generale.
Ci sono timori per via di persone poco affidabili che si avvicinano a donne e bambini? Gente che finge di aiutarli e poi potrebbero sfruttarli?
Ci sono. Per questo è molto importante che vengano implementati i meccanismi e i protocolli di protezione umanitaria relativi a donne e bambini. Intersos è riconosciuta per la lunga esperienza internazionale, per le donne vittime di violenza e i minori soli, ma anche per le persone con salute mentale instabile a cui dover porre attenzione. Organizzazioni del genere hanno delle policy interne di controllo. Voci del genere, purtroppo, arrivano dappertutto, anche dalle strade di Roma. Per questo serve la protezione umanitaria. Questo è un tema non legato solo a questa crisi.