L’inchiesta, scrive il gip, ha “accertato che alcune società riconducibili agli Aloisio e ai Giardino” lavorano “da anni stabilmente nel settore della manutenzione della rete ferroviaria” fornendo “manodopera alle grandi società vincitrici delle gare di appalto”. Le due famiglie di imprenditori sono ritenute contigue alla cosca Nicoscia-Arena di Isola di Capo Rizzuto. E “dietro questa immagine ufficiale di imprenditori” di successo, fa notare il gip, si nasconde “il volto di uomini quantomeno contigui alla ‘ndrangheta”. E che dall’organizzazione criminale “mutuano metodi violenti per la risoluzione di controversie che possono insorgere sui loro cantieri o con gli operai che vi lavorano”.
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Nelle carte spuntano anche i nomi dei colossi del settore. “Ventura ha tutta la Calabria, Morelli ha tutta la Campania ed Esposito ha tutta la Sicilia, Rossi ha tutto il Nord Italia”, dice Alfonso Giardino, indagato, a Maurizio Aloisio. Trai grandi gruppi, poi, potrebbe essere stato stretto un “accordo spartitorio” su cui la procura sta ancora indagando.
L’influenza della cosche
Grazie alla possibilità di lavorare nei cantieri di Rfi, le due famiglie riuscivano anche “accrescere” il loro “potere”. Lo facevano attraverso il “reclutamento dalla ‘Calabria Saudita’”, come si legge in un’intercettazione, “della pressoché totale ‘forza lavoro’ necessaria ad eseguire i lavori di cui alle commesse”.
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Le società vicine alla cosca si facevano pagare dalle vincitrici degli appalti per il “distacco” dei loro lavoratori in quelle imprese, molto note, che vincevano gli appalti con Rfi. I colossi del settore intanto iscrivevano quei costi e ne traevano benefici fiscali.
Con i soldi ottenuti, invece, le aziende vicine alla ‘ndrangheta, stando alla ricostruzione, pagavano gli operai che lavoravano nei cantieri, ma “in parte” anche “fatture per operazioni inesistenti ricevute da altre società”. Si creavano così fondi “restituiti ‘in nero’ alle società” ai colossi del settore, che avevano vinto le gare di Rfi.
Il meccanismo dei subappalti mascherati