Durante la prima ondata della pandemia tanti, troppi anziani sono morti nelle Rsa. Una strage silenziosa che non ha lasciato indifferenti medici e operatori sanitari che li assistevano. Ma a chi ha denunciato che cosa è successo? Per Amnesty International le ritorsioni sono state tante…
Il Covid-19 è tristemente diventato sinonimo delle tante, troppe morti di pazienti anziani nelle Rsa. Una strage silenziosa di cui il Pio Albergo Trivulzio, la più grande e più antica struttura della Lombardia, è diventata il simbolo. Solo alla ‘Baggina’, come lo chiamano i milanesi, infatti, i decessi a causa del virus – tra gennaio e marzo 200– sono stati circa 300. Ma a Milano, in Lombardia e in tutta Italia i casi non si contano. E le strutture finite sotto la lente di magistrati e investigatori per la gestione della pandemia nemmeno.
Cosa è successo a chi ha denunciato? Ad accendere un faro sulla situazione è Amnesty International, che a fine ottobre ha divulgato un rapporto dal titolo eloquente: “Messi a tacere e inascoltati”. Medici, operatori sanitari e Oss che si sono rivolti ai magistrati, raccontando quello che avveniva davanti ai loro occhi, infatti, hanno spesso subito ritorsioni e provvedimenti disciplinari. In alcuni casi sono stati perfino licenziati.
Tra chi ha perso il lavoro – per poi vincere una causa ed essere renintegrato – c’è anche Hamala Diop, 26 anni, di origine senegalese ma cresciuto a Milano. Lavorava, tramite una cooperativa, per la Fondazione Don Gnocchi. Nella sua struttura gli anziani morti sono stati 140. Quando Hamala ha deciso di denunciare, è scattato il licenziamento. Il 10 maggio scorso il Tribunale del Lavoro di Milano ha obbligato la cooperativa a reintegrarlo. Sentenza poi confermata in appello a fine ottobre.Troppo tardi però: Hamala si è trasferito a Parigi in cerca di una situazione lavorativa più stabile.
Stesso copione anche per Piero, sindacalista e dipendente di una grande Rsa milanese. Anche il suo nome è finito nel rapporto di Amnesty International per essere “stato preso di mira a causa delle sue attività sindacali, in particolare per aver lanciato l’allarme riguardo all’alto tasso di mortalità tra le persone anziane residenti nella struttura”. Sono sette in provvedimenti disciplinari scattati a suo carico. Poi, a novembre 2020, il suo datore di lavoro ha deciso di sospenderlo per un mese. Il suo caso non è isolato. Nello stesso periodo, tra novembre e dicembre 2020 “sono stati avviati altri 120 procedimenti disciplinari contro altri operatori che avevano espresso preoccupazione riguardo alle condizioni di salute e di sicurezza nella stessa struttura”.
La posizione dei lavoratori che, come Hamala e Piero, hanno denunciato si fa ancora più difficile nei casi in cui – come per il Trivulzio e altre Rsa – i pm hanno avanzato richiesta di archiviazione. Per i pm milanesi, infatti, “non è stata acquisita alcuna evidenza di condotte colpose o comunque irregolari” tali da causare direttamente le morti dei pazienti. E questo nonostante in 18 mesi di indagini sia ermersa “una certa sottovalutazione iniziale del rischio dei contagi da Covid”. Non ci sarebbero abbastanza prove, però, perché il caso approdi in aula. L’ultima parola – sia per la ‘Baggina’ sia per altre 7 strutture milanesi- spetterà ad un gip. Mentre per altre Rsa le indagini sono ancora in corso.
Nel frattempo, però, i dipendenti whistleblower sono sempre più preoccupati per il loro futuro. Un’occasione per fare il punto sui tanti esposti presentati, grazie al sindacato di base Usb, sarà sabato 13 novembre alle 15.30 alla Casa della Cultura di Milano.
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